Nata in seno alla nobile famiglia genovese dei Cattaneo della Volta, a Genova o Portovenere, viene citata in un’annotazione nel Catasto fiorentino del 1469-1470, nel libro relativo al quartiere di Santa Maria Novella, in cui risulta registrata quale membro della famiglia di Piero Vespucci: “Simonetta di messer Guasparri Catani sua dama d’anni XVI”.
Si deduce così che Simonetta doveva essere nata intorno al 1453, da Gaspare Cattaneo della Volta, di antico lignaggio, e da Cattocchia (Caterina) Violante Spinola, che aveva sposato in prime nozze Battista Fregoso, uomo d’armi e doge genovese per un solo giorno.
Intorno al 1457, durante il dogato di Pietro Fregoso (figlio di primo letto di Cattocchia) Genova conobbe un periodo di lotte intestine che costrinse la famiglia di Simonetta a lasciare la città e a rifugiarsi a Piombino, presso la corte degli Appiano, a cui era legata da vincoli di parentela. Fu Jacopo III, signore di Piombino, a fare da tramite per il matrimonio di Simonetta, assegnandole addirittura una cospicua dote ricavata dalle rendite derivanti dalle miniere di ferro che possedeva nell’isola d’Elba.
Lo sposo prescelto era il coetaneo Marco Vespucci, cugino del più noto Amerigo. Appartenente a una prestigiosa famiglia di mercanti, egli poteva vantare, tra l’altro, anche una solida relazione con la famiglia Medici. Simonetta quindi, all'età di quindici anni, si trasferì a Firenze per contrarre matrimonio e incontrò per la prima volta Botticelli e la famiglia Medici, figure politiche di spicco e mecenati d'arte, attraverso il suo legame proprio con la famiglia Vespucci.
Subito dopo il suo arrivo, Simonetta divenne nota come "La Bella Simonetta" e poeti e artisti fecero a gara per ritrarla.
La bella Cattaneo si spense a soli 22 anni di età, che cosa accadde, allora, per consacrarla alla fama?
Fondamentale fu la giostra che si disputò a Firenze in piazza Santa Croce nel 1475, vinta da Giuliano de’ Medici e a lei dedicata.
Nella Firenze del Quattrocento si attestò la consuetudine di organizzare giostre e manifestazioni cavalleresche in occasione di festività e celebrazioni cittadine, concepite per dimostrare il valore e l’onore, individuale e collettivo, a cui partecipavano non solo i cittadini fiorentini ma anche capitani di ventura, uomini d’arme e principi stranieri, talvolta rappresentati dai propri cavalieri.
Con l’età laurenziana e l’affermarsi del potere mediceo, le giostre vennero ben presto investite di un nuovo significato, che poneva in risalto il prestigio personale del casato.
Fu Lorenzo il Magnifico stesso a distinguersi per primo in uno di questi tornei cavallereschi, che giocò e vinse nel 1469. La giostra di Lorenzo, come quella, di pochi anni successiva, che ebbe come protagonista il fratello minore Giuliano, fu ideata dagli intellettuali che gravitavano intorno alla famiglia e concepita come un racconto cavalleresco, con protagonista un prode cavaliere costretto a superare prove ed ostacoli per conquistare il cuore della dama amata.
Chi erano le donne amate vagheggiate dai due cavalieri?
Nel caso di Lorenzo, si trattava di Lucrezia Donati, nobildonna fiorentina e sposa di Niccolò Ardinghelli, mentre il cuore di Giuliano batteva per la bella Simonetta che era maritata da qualche anno a Marco Vespucci.
Due donne sposate e quindi impossibilitate a ricambiare il loro sentimento.
La giostra ideata per Giuliano venne indetta nel 28 gennaio 1475 per celebrare la “lega italica” che sanciva l’alleanza tra Firenze, Milano e Venezia, rinnovata nel dicembre precedente.
L’intero apparato decorativo e gli ornamenti indossati da Giuliano e dei suoi cavalieri furono particolarmente sontuosi. Nel libro di ricordi del notaio ser Giusto d’Anghiari si legge che i giovani “avevano ornamenti di perle e di gioie e il valsente di 60.000 fiorini” e che le perle erano così numerose che durante gli scontri le si potevano vedere rotolare per terra!
Nominata "Regina della bellezza", Botticelli ritrasse Simonetta sullo stendardo da parata che fu portato dal vincitore del torneo, il suo futuro amante Giuliano de' Medici. Purtroppo è andato perduto, ma sappiamo che rappresentava una Atena/Minerva grande “al naturale”, simbolo di amore casto, grazie alla descrizione che ne diede l’umanista Naldo Naldi, che citò i consueti attributi della dea: stringeva in una mano una lunga lancia e nell’altra lo scudo con la testa di Medusa, i suoi piedi poggiavano sul fuoco che bruciava i rami di ulivo disposti ai lati della sua figura, e tutt’intorno, si stendeva un bel prato fiorito con un ceppo di olivo a cui era incatenato il dio dell’amore, Cupido, le cui armi erano deposte ai suoi piedi. A un ramo di ulivo era anche legato il motto “La sans par” (la senza uguali), allusione alla bellezza irraggiungibile di SImonetta, le cui fattezze erano riconoscibili nel volto della dea.
Il suo volto rappresentava il concetto rinascimentale italiano di bellezza ideale: la bellezza esteriore che rifletteva la bellezza interiore o virtù (bellezza spirituale).
L’amore platonico tra Giuliano e Simonetta non era però destinato a durare, stroncato dalla morte prematura di entrambi i giovani. La Cattaneo si spense l’anno successivo alla giostra, probabilmente a causa della tisi. A nulla valsero gli sforzi della famiglia e l’interessamento di Lorenzo il Magnifico per salvarla dalla malattia che l’aveva colpita. Dalle lettere di Piero Vespucci sappiamo che Lorenzo aveva addirittura inviato il suo medico personale al capezzale della donna.
Domenico Ghirlandaio, Madonna della Misericordia, Cappella Vespucci.
Simonetta morì il 26 aprile 1476 e fu sepolta nella cappella di famiglia. Esattamente due anni più tardi, il 26 aprile 1478, un tragico destino colpì anche Giuliano, vilmente ucciso nel corso della Congiura dei Pazzi.
E’ Lorenzo il Magnifico stesso a ricordare, nel breve commento che introduce ai quattro sonetti che compose in suo ricordo, che:
“(…) tutti e fiorentini ingegni, come si conveniva in tale pubblica iattura, diversamente e si dolsono, chi in versi e chi in prosa, della acerbità di questa morte. E si sforzorono laudarla, ciascuno secondo la facoltà del suo ingegno”.
E ci aiuta a comprendere la già diffusa fama della Cattaneo:
“Morì nella città nostra una donna, la quale se mosse a compassione generalmente tutto il popolo fiorentino, non è gran meraviglia, perché di bellezze e gentilezze umane era veramente ornata più di qualunque altra vissuta prima. E, fra le altre sue eccellenti doti, aveva così dolce e attrattiva maniera, che tutti quelli che con lei avevano qualche rapporto credevano di essere da essa sommamente amati. Le donne sue equali non solamente di questa sua excellenzia tra le altre non avevano invidia alcuna, ma sommamente esaltavano e lodavano la sua bellezza e nobiltà: per modo che impossibile pareva a credere che tanti uomini senza gelosia l’amassero e tante donne senza invidia la lodassero. E se bene la vita sua, per le sue degnissime condizioni, la rendesse cara a tutti, pure la compassione della morte, e per la sua giovane età e per la bellezza che, così morta, forse più che mai alcuna viva mostrava, lasciò di lei uno ardentissimo desiderio”.
Lorenzo compose dunque per la morte di Simonetta quattro sonetti:
“O chiara stella”,
“Quando il sol giù dall’orizzonte scende”,
“Di vita il dolce lume fuggirei”,
“In qual parte andrò io, ch’io non ti truovi”.
Essi celebrano le virtù della donna e offrono una riflessione sui concetti di morte (intesa come nuovo inizio) e di amore, che per raggiungere la perfezione deve morire alle cose imperfette.
Simonetta morì giovanissima, ma Botticelli continuò a caratterizzare la sua immagine nella sua arte per il resto della sua vita. E' sicuramente legato indissolubilmente al nome di Simonetta, i due sicuramente ebbero modo di conoscersi, sia per una banale questione di vicinato, abitando nello stesso quartiere e a pochi metri di distanza, sia per via delle numerose commissioni allogate al pittore dai Vespucci. Prima di morire, trent'anni dopo, il pittore chiese di essere sepolto ai suoi piedi.
Ma non basta: alcune soluzioni adottate da Botticelli nei suoi più celebri capolavori hanno indotto parte della critica a riconoscere le fattezze di Simonetta nel volto della dea nella Nascita di Venere o di una delle tre Grazie che danzano nella Primavera (anche se nel Quattrocento non era ancora diffusa l’usanza di posare dal vero per un pittore e di certo non sarebbe stato conveniente, per una donna sposata, farsi ritrarre nuda o quasi).
Esiste allora un ritratto reale di Simonetta?
In uno dei presunti ritratti di Simonetta, oggi conservato nello Städel Museum di Francoforte, la nobildonna sarebbe raffigurata a mezzo busto, con il viso di profilo e un'elaborata acconciatura che presenta perle di diversa dimensione e fili argentei che escono da un gioiello a forma di fiore, in oro con rubino.
La collana di fili d’oro regge un raro pendente eseguito in età ellenistica, un cammeo in sardonica a due facce aventi lo stesso soggetto e la medesima cornice in oro e smalto nero. Il prezioso doppio cammeo, oggi conservato presso il dipartimento Médailles et Antiques della Bibliothèque Nationale de France a Parigi, raffigura il momento successivo alla vittoria di Apollo nella sfida musicale lanciata da Marsia, immediatamente prima del suo scuoiamento, supplizio al quale Apollo lo aveva condannato per averlo sfidato.
Apollo seminudo, in piedi, tiene nelle mani un plettro e la lira, appoggiata sul fianco. Tutto converge sulle emozioni dei personaggi raffigurati, inclusa quella di Olympos, la cui inutile invocazione di pietà e salvezza per il suo maestro Marsia fa riflettere: nessuna preghiera o implorazione potrà modificare la decisione del dio che ha deciso di punirlo per la sua tracotanza (hybris). Marsia, nudo e seduto sulla pelle di un leone, è piegato dalla sofferenza, i piedi incatenati e le mani legate ad un albero secco, privo di vita. Accanto a lui c’è l’aulòs, il flauto a doppia canna da lui inventato.
Il cammeo dipinto da Botticelli, assiduo frequentatore in quegli anni del circolo culturale neoplatonico prossimo a Lorenzo il Magnifico, si riferiva alla vittoria dell’intelletto sugli istinti brutali, alludendo alla liberazione dell’anima dai legami terreni, rappresentati da Marsia, secondo quanto scritto da Pico della Mirandola nel 1485: “spogliarsi di Marsia significa sottrarre l’anima ai legami terreni, la vittoria di Apollo è la vittoria della musica divina”.
È possibile ipotizzare che il famoso Sigillo di Nerone, che insieme ad altre 96 gemme era uno dei pezzi più preziosi della collezione di Lorenzo il Magnifico, sia stato realizzato utilizzando questo pendente. Il cammeo è infatti una gemma lavorata a bassorilievo mentre il sigillo, al contrario, viene inciso per creare un’immagine incavata rispetto al piano della pietra. Il sigillo è di fatto un’impronta, una vera e propria matrice, incisa al negativo e realizzata per essere impressa su una materia morbida, come la ceralacca, per autenticare editti, atti ed epistole, e che veniva talvolta ricavato da un calco in cera di un cammeo proprio come quello indossato nel dipinto.
Tornando ai presunti ritratti botticelliani di Simonetta, nella vita che Giorgio Vasari dedica all'artista, si legge che nella collezione di Cosimo I vi erano “due teste di femmina di profilo, bellissime; una della quale si dice che fu l’innamorata di Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo, e l’altra Madonna Lucrezia de’ Tornabuoni (…)”.
Vasari stesso non ha certezze nell’identificare il soggetto (si dice che…) e inoltre potrebbe trattarsi di un’altra donna legata a Giuliano, magari di quella Fioretta Gorini che gli partorì il suo unico figlio, Giulio, il futuro papa Clemente VII.
Certo è che il pittore realizzò almeno un ritratto di Simonetta, poiché Piero Vespucci e il figlio Marco avevano deciso di regalare a Giuliano, che si era presentato a casa loro dopo la morte di Simonetta, alcuni suoi vestiti e un dipinto che la rappresentava, “per cercare di placare il suo profondo dolore”.
In assenza di prove documentarie è impossibile identificare questo dipinto con uno dei ritratti muliebri botticelliani che sono giunti fino ai nostri giorni.
La scomparsa di Simonetta segnò la nascita del suo mito e la sua elezione a ideale di bellezza neoplatonica tra il circolo di intellettuali ed artisti medicei.
Al Musée Condé del Castello di Chantilly, in Francia, è invece conservato un dipinto, opera di Piero di Cosimo, che reca sulla base l’iscrizione in latino “SIMONETTA IANVENSIS VESPUCCIA” e che rappresenta una giovane donna di profilo, con i capelli raccolti in una elaborata acconciatura, impreziosita da perle e da gioielli. Intorno alla collana che porta al collo si snoda un serpente, che è quasi in procinto di mordersi la coda. Le fascia le spalle un elegante scialle colorato che non le copre, però, i seni, che si offrono allo spettatore nella loro nudità. Sullo sfondo vi è un paesaggio collinare, in cui, oltre gli alberi, si intravede il profilo di una città.
Realizzato intorno al 1480, potrebbe trattarsi di una commissione medicea in memoria della bella Simonetta. Alcuni elementi del dipinto (il serpente, il cerchio da esso disegnato – allusione all’infinito -, gli alberi sulla sinistra privi di foglie e le nuvole che turbano il cielo azzurro) sono stati interpretati come simboli allusivi alla prematura morte della giovane, e alla contemporanea speranza di nuova vita.
Occorre però precisare che l’iscrizione è stata aggiunta posteriormente (forse nel XVI secolo) e che il ritratto sarebbe comunque ideale, perché eseguito dopo la morte di lei e da un pittore ancora giovane, che certo non aveva avuto modo di conoscerla personalmente.
Nell'ambito del progetto RichFree, ho scelto di renderle omaggio riproducendo proprio questo ritratto, in cui Simonetta è raffigurata nelle vesti di Cleopatra, a cui ho abbinato l'immagine della dea Wadjet che la avvolge nelle sue spire, in senso di protezione, citando un altro mio precedente dipinto a lei dedicato.
Seguendo l'iter mitologico da cui ha preso vita la dea Iside, sviluppatosi nel corso di millenni, risalendo fino alle divinità predinastiche scopriamo, infatti, un primigenio cobra di sesso femminile che divenne la divinità più alta e venerata. Il suo nome era Wadjet, la Dea Cobra. Nell’antichità il serpente era l’animale totemico delle dee, poiché il loro continuo cambiar pelle era inteso come la capacità di morire e rinascere, e quindi di generare la vita, proprio come fanno le donne, ecco perché in ogni mito antico le divinità femminili sono quasi sempre associate ai rettili.
La Signora della Fiamma era la divinità locale della città di Per-Uadjet, e la sua prima rappresentazione fu quella di un serpente cobra, per poi acquisire col tempo una storia e un’iconografia più complesse. La sua immagine cambiò molte volte, divenne la protettrice del Basso Egitto e, insieme alla dea Nekhbet, l’avvoltoio tutelare dell’ Alto Egitto, simboleggiò le Due Terre riunite nel nome del faraone. Quando le due divinità si fusero, a Wadjet crebbero le ali.
Successivamente la sua figura cambiò passando prima per un cobra che tiene il disco solare fra le sue spire oppure in testa; e poi per una donna alata con il corpo serpentiforme dalla vita in giù.
Con il tempo Wadjet perse importanza e divenne un accessorio di altre divinità con funzione protettiva: la sua rappresentazione più comune era quella di Occhio di Ra o Occhio di Horus, ma apparve anche attorno al disco solare di alcune divinità come Ra.
Sul diadema che cingeva la fronte del faraone assumeva la forma di un uraeus, Ureo, un cobra eretto con il disco solare sulla testa, in grado di soffiare fuoco sui suoi nemici, ecco perché era chiamata “signora della fiamma”.
Anche il nome subì parecchie trasformazioni: da Wadjet divenne Ua Zit (serpente divino), per poi divenire Auset, Sothis (ovvero Sirio) e infine Isis (che significa “trono” e sottintende il trono divino sul quale siede Horus, figlio di Iside), quindi Iside.
Cleopatra VII fu la più nota delle regine adoratrici di Iside e quella più devotamente dedita al suo culto. Si definiva “la nuova Iside” e spesso si mostrava abbigliata come la dea. Fu costretta a sposare il proprio fratello minore Tolomeo, i cui consiglieri complottarono per liberarsi di questa regina che aveva un forte carattere ed un intelligenza superiore. Tuttavia Iside aveva altri propositi per la sua sacerdotessa e Cleopatra trovò in Giulio Cesare un potente alleato: anche se Roma era contraria al culto di Iside, Cesare manifestò sempre una grande tolleranza (pur essendo convinto che queste aggregazioni costituissero una minaccia per la stabilità dello stato). A quanto sembra, in Egitto, si incontrò con un individuo chiamato “l’alto pontefice di Iside” e non è escluso che l’incontro tra Cleopatra e Giulio Cesare sia stato orchestrato proprio dal clero isiaco, che vedeva in questo sodalizio la fine dell’abbattimento di templi e santuari isiaci a opera delle autorità romane.
Quando Giulio Cesare fu assassinato, Cleopatra ricreò quella che era stata la sua “divina” unione con Marco Antonio e tornò a trasferire il trono di Egitto ad un altro romano, simpatizzante della religione isiaca e che come tale non avrebbe ostacolato l’espansione del culto.
Comments