Tra le arti intercorrono strette relazioni e tanti artisti, durante la loro formazione o la propria carriera, incrociarono l’arte orafa, tra questi ricordiamo Ghiberti, Donatello, Benvenuto Cellini, Salvador Dalì e Giorgio De Chirico, solo per citarne alcuni.
Per quanto concerne i primi, l’oreficeria fu spesso il punto di partenza della loro formazione. Per i secondi, invece, si parla di gioiello d’artista e la realizzazione delle loro creazioni veniva affidata quasi sempre a mastri orafi che ne eseguivano i progetti.
Il gioiello d’artista si manifesta come fenomeno nascente con le Avanguardie Storiche e si protrae fino ai giorni nostri, ed è molto interessante il passaggio dal bidimensionale pittorico al tridimensionale in casi come quelli di Salvador Dalì e Giorgio De Chirico, i quali si ispirarono a loro famosissimi dipinti per la realizzazione di monili unici e inconfondibilmente connotati.
"E i gioielli li ama? Spesso li ha dipinti."
"Non li amo né li detesto. Non credo che Morandi andasse pazzo per le bottiglie, anche se le dipingeva…"
Così de Chirico rispondeva alla domanda della giornalista Berenice (Jolena Baldini), in occasione di una lunga intervista. In modo distaccato, un po’ ironico e snob, mostra un atteggiamento neutro di fronte al gioiello, oggetto del desiderio per eccellenza, a cui si dedicò invece, seppur in modo estemporaneo e occasionale.
Il Maestro infatti non solo ha dipinto gioielli, soprattutto quelli indossati dalle signore dell’alta società che amavano farsi ritrarre, ma li ha creati, inventati, elaborandone il disegno o plasmandone il modello. Per il Maestro i gioielli rappresentano la naturale estensione dell’attività scultorea e l’estrema sintesi delle riflessioni sulla ‘materia pittorica’, che tanto l’appassionarono durante gli ultimi decenni della sua attività.
Molto probabilmente, la prima volta che de Chirico disegnò un gioiello che non fosse un semplice filo di perle al collo di una delle donne da lui ritratte, fu per la copertina del numero di Novembre 1935 della rivista di moda americana Vogue, pochi mesi prima del suo arrivo a New York per presenziare all’apertura dell’esposizione dei suoi dipinti recenti che si sarebbe tenuta nella galleria del giovanissimo Julien Levy. De Chirico si era meticolosamente preparato a quest’importante evento d’oltre oceano, evidentemente anche le copertine di un’importante rivista di moda, letta dai ceti più abbienti di quella società cosmopolita, facevano parte di un’attenta strategia della comunicazione.
Più conosciuta, la produzione orafa seriale comprende le cosiddette ‘sculture-gioiello’ in argento, argento dorato e oro, formate in gesso e fuse a cera persa (adattabili per lo più come pendenti o spille e realizzate all’inizio degli anni Settanta) e quelle in bronzo di piccole e grandi dimensioni. I multipli recano incisa la firma del Maestro, sono numerati da 1 a 150 e furono eseguiti anche dopo la sua scomparsa, su autorizzazione della moglie Isa che ne predispose il completamento nei limiti indicati nelle tirature. In questi oggetti sono estrapolati i temi più noti del suo repertorio pittorico: triangoli, squadre, gladiatori, muse, archeologi, quelli che meglio si adattano alla funzione del monile.
Ad esempio, Musetta raffigura il busto del noto manichino che contiene un frontone di tempio, riproponendo così i protagonisti delle enigmatiche piazze. Questa produzione orafa costituisce un ‘divertimento’, uno svago intellettuale, condotto all’insegna del massimo rigore filologico e coincidente con la fase di ricerca detta ‘Neometafisica’ in cui vengono ripresi i temi tradizionali del periodo Metafisico.
Dell’esistenza invece dei ‘pezzi unici’ non si trovano che rarissimi accenni nelle fonti bibliografiche.
Lo storico del gioiello Graham Hughes inserisce de Chirico tra i principali artisti disegnatori di gioielli, affermando: “Ha disegnato una piccola serie di gioielli come regali per sua moglie durante gli anni Cinquanta […].” Più tardi, nel catalogo della mostra di Spello del 1988, nella nota al margine della presentazione, è nuovamente ribadito il carattere ‘privato’ di questa produzione: “[…] Sono queste sculture-gioiello i primi multipli di Giorgio de Chirico concepiti a questo fine dopo i pochi gioielli in oro e pietre preziose realizzati dall’artista in pezzi unici per la moglie Isa […].”
Nel testo dedicato al “gioiello d’artista” del catalogo della mostra Italian Metamorphosis 1943-1968 così si legge: “Fra il 1948 e il 1963 Jean Arp, Georges Braque, Giorgio de Chirico, Max Ernst, Man Ray, Meret Oppenheim, Pablo Picasso […] si sono impegnati a miniaturizzare le loro immagini per trasformarle in orecchini, collane, e spille che portavano motivi iconografici e linguistici legati alle tradizioni del Cubismo, del Dadaismo e dell’arte metafisica […].”
In realtà dei gioielli eseguiti dal Maestro per la moglie risultava nota solo la spilla Gli Archeologi: proprietà di Isa de Chirico, il monile raffigura gli uomini-manichino, realizzati con la fusione a cera persa, circondati da due rami di foglie, in realtà un paio di orecchini con pavé di brillanti, di fattura ottocentesca, le cui clips sono utilizzate come un sostegno alla composizione. Le tre perle pendenti che arricchiscono in basso l’oggetto sono ugualmente ‘di recupero’: si tratta quindi di una sorta di assemblaggio di elementi antichi e moderni, in piena sintonia con la poetica e le suggestioni metafisiche.
Uno straordinario oggetto che anticipa cronologicamente l’attività orafa del Maestro è la spilla "Due cavalli accanto ad un frammento di colonna", creata durante il periodo bellico, quando de Chirico era ospite dei Bellini, noti antiquari fiorentini, che promossero le sue prime opere in terracotta. In questo ambiente ha la possibilità di approfondire l’interesse per la manualità in una generale rivalutazione delle arti applicate, condivisa con altri artisti. Infatti il Maestro firma un accordo per costituire la società C.E.A., a sostegno dell’artigianato, con l’intento di produrre gioielli, vetri soffiati e tovaglie ricamate.
L’esecuzione della spilla si deve all’orafo Ettore Mancini, che aveva lavorato per Cartier e fu commissionata da Mario Bellini come dono per la moglie Adriana (Dodina). La sua fattura è molto accurata e raffinata nei particolari, e rappresenta un soggetto tra i più noti, sviluppato in infinite varianti a partire dagli anni Venti: i cavalli appaiati con le criniere e le code fluenti, uno chiaro e l’altro scuro, sulla riva al mare, con lo sfondo delle rovine, evocazione nostalgica dell’antica Grecia.
“Sembrano cavalli fantastici – così scrive il critico svedese Aspund – modellati nel gesso, con code come crinoline. Rovine di antichi palazzi e frammenti di colonne entrano pure nella composizione, ma i cavalli hanno una loro vita a sé e sembrano guardare, pieni di orgoglio, indietro, verso un grande passato, o avanti verso un grande avvenire […].”
La spilla sembra ispirata dai disegni raccolti nei volumi del Répertoire da Salomon Reinach, archeologo francese che, documentando la scultura e la pittura antiche, suggerirono a de Chirico molteplici spunti iconografici. Nella trasposizione ‘preziosa’, l’ambientazione paesaggistico-architettonica si risolve nella presenza del capitello ionico tempestato di rubini, zaffiri e brillanti, che diventa la base d’appoggio dei cavalli. La varietà dei colori, delle pietre e dell’oro rende l’oggetto una sontuosa ‘scultura portatile’, plasticamente pittorica, intensamente cromatica.
Non è documentato invece alcun rapporto tra il Maestro e gli editori del ‘gioiello d’artista’, Mario Masenza e i fratelli Fumanti che, negli anni Cinquanta e Sessanta, promossero un nuovo progetto creativo, invitando i maggiori artisti del periodo a realizzare oggetti preziosi, né la sua partecipazione alle varie rassegne del settore. È certo però che il clima da essi suscitato nell’ambiente artistico-culturale romano non lasciò immune il Pictor Optimus. In quegli anni, infatti, De Chirico eseguì una serie di gioielli ‘pezzi unici’, inediti, con la tecnica della fusione a cera persa: il Maestro fornì il modello tridimensionale, quindi l’orafo rifinì l’oggetto a sbalzo e a cesello stendendo sull’oro, in alcuni casi, una patina di ossidazione, al fine di ottenere un maggior effetto decorativo. Si tratta quasi esclusivamente di spille, un tipo di gioiello che, sviluppando uno spazio bidimensionale, permetteva meglio di ogni altro di trasferire nella lucentezza dei metalli e delle pietre i segni e gli accordi cromatici propri della superficie dipinta.
Gli oggetti, che riscossero l’ammirazione di uno dei più noti gioiellieri del tempo, Giorgio Leonida Bulgari, erano maggiormente ‘scultorei’ e meno rifiniti, e sottolineavano la totale appartenenza dei gioielli alla creatività dechirichiana, considerandoli alla stessa stregua dell’opera d’arte.
La maggior parte dei monili ripete, in alcuni casi con piccole varianti, l’iconografia della pittura cosiddetta ‘neobarocca’, uno stile che interpreta il desiderio di esaltazione, di opulenza e teatralità, tutti elementi ravvisabili nei soggetti prescelti: il mito, la tragedia greca, i poemi cavallereschi, le battaglie, il paesaggio, scenari dell’unica realtà possibile, quella evocata dagli esempi del mondo classico, quasi un sogno nostalgico, vissuto da de Chirico in prima persona.
Il nuovo linguaggio nasce dalla profonda riflessione sull’importanza della materia cromatica, che gli si rivelò in modo improvviso e sconvolgente davanti a un quadro di Velázquez, al Louvre, quando la moglie Isabella gli avrebbe detto: “Questo non è colore prosciugato ma bella materia tinta […].” Da questa materia infatti, usata dai pittori dei secoli passati, consistente e carica di pigmenti, fatta da emulsioni dense e grasse, prenderanno vita quelle invenzioni e soluzioni formali in grado di esaltare il medium pittorico.
Il Maestro elabora il cosiddetto ‘olio emplastico’, una pasta cromatica trasparente e vischiosa, ottenuta studiando i ricettari francesi del Settecento e del primo Ottocento. Quest’olio, asciugando istantaneamente senza perdere di trasparenza, consentiva di sovrapporre molto velocemente le pennellate, che risultavano simili a pezzi di vetro accostati gli uni sugli altri. Sulla “bella materia” il Maestro costruisce un’impalcatura narrativa e iconografica che contiene in nuce l’idea del gioiello, o piuttosto il senso della preziosità intesa come categoria dello spirito.
Così il gioiello, oggetto unico e sommamente desiderabile, può considerarsi il tassello che completa il grandioso puzzle del ‘barocco dechirichiano’. Che cosa, più dell’oro e delle gemme preziose, avrebbe potuto tradurre la “bella pittura”? Punto di riferimento costante in questo continuo indagare rimane la tradizione passata:
Tutte le ricerche tecniche e pittoriche di de Chirico, tutti i suoi calcoli di alchimia e magia operati intorno alle materie coloranti trovano in Rubens la massima espressione.
Per carità non chiamatelo però mago. Il Maestro vuol essere soltanto un operaio, il sognatore che si curva sulla tavolozza su cui stanno disposti i colori come un minuscolo arcobaleno composto di tante mezze palline di topazi, di zaffiri, di smeraldi, di turchesi e di rubini.
È interessante notare come spesso la materia pittorica sia stata accomunata al metallo nobile, alle gemme e quindi ai gioielli, che da sempre hanno affascinato l’uomo: “La pittura è un raffinato tessuto di tinte […] un abito lussuoso […] non un oggetto brillante. Ma un gioiello, capace di attirare lo sguardo, trattenendolo e proiettandolo nello spazio illimitato, senza ormeggi, ‘lontano dalla realtà, dalla banalità, dalla malvagità, dalla stupidità, lontano dalla terra’.”
Nel Discorso sulla materia pittorica, paragona la sostanza cromatica all’oro: “Quest’emulsione era già la materia fisica del quadro, ma ancora allo stato liquido, come l’oro è liquido prima di essere trasformato in un oggetto o il cristallo prima di diventare una coppa o un boccale.”;.
“La materia della pittura dev’essere bella interamente, dalla superficie fino in fondo, come un oggetto d’oro e non soltanto alla superficie come un oggetto dorato.”
È chiaro che de Chirico associa in un medesimo iter creativo la genesi del dipinto e quella dell’ornamento: per entrambi è necessario il talento manuale posseduto solo da chi sa ‘ritornare al mestiere’. La capacità di plasmare, di sfumare e di infondere ariosità alla massa colorata trova così un ulteriore, seppur episodico, sbocco nell’elaborazione del gioiello, che diventa il prodotto finale e immediatamente fruibile dell’universo opulento ed effimero del Barocco, del concetto stesso di decorazione. I soggetti, prestati dal mondo mitico e favoloso della pittura, scendono dalla tela per cristallizzarsi nel monile, a dar sfoggio di sé, nell’autocompiacimento e nell’omaggio alla grazia femminile, senza nulla perdere del loro fascino evocativo.
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