Nell’estremità occidentale della Sicilia svetta una montagna che sovrasta la città di Trapani, il monte Erice, su cui sorge il santuario dedicato al culto della dea Venere Ericina.
Il nome della dea subì cambiamenti imposti dal succedersi delle varie culture, ma tutte le sue versioni saranno sempre accompagnate dall’appellativo Ericina, che indica la peculiarità del culto siciliano nei confronti della dea e del suo relativo rituale.
Il culto iniziò nell'antica città siciliana di Eryx, nel cui tempio dedicato alla dea si professavano i Sacri Misteri, risevati solo agli iniziati, e trasformati oggi nella processione dei Sacri Misteri della passione di Gesù Cristo. Il 23 aprile, dunque, ricorreva in Sicilia la festa in onore della dea di Erice, tuttavia, nel corso dei festeggiamenti veniva praticata la prostituzione sacra (dies meretricum), da cui si sono dedotte le origini tipicamente orientali del culto della Venere Ericina, in quanto ampiamente praticata da diverse popolazioni quali Sumeri, Armeni, Babilonesi ed Egizi. Tale pratica, infatti, appariva connessa ad importanti divinità femminili come l'accadida Inanna, la sumerica Ishtar e la fenicia Astarte, per poi diffondersi in Grecia con il culto di Afrodite e a Roma con quello di Venere.
Nel quadro degli studi sulla Sicilia antica, la dea di Erice ha spesso destato particolare interesse, se non altro in quanto seconda divinità più importante dell’isola dopo l’onnipresente Demetra/Cerere. Fin dalla prima storiografia umanistica, la dea è stata quindi percepita come un’importante gloria isolana di cui rivendicare la ‘sicilianità’.
Le origini del culto della divinità femminile della fecondità sono state di volta in volta ricostruite con modalità differenti.
Ad Erice, la dea sarebbe stata una regina locale di nome Lycastes (ma già chiamata Venere in vita in virtù della sua bellezza), divinizzata dopo la morte per iniziativa del figlio Erice, tramite la costruzione del tempio. Virgilio, invece, narra che fu Enea, figlio di Venere, a fondare sul monte, per la divina madre, "una sede vicina alle stelle" .
In Sicilia, quindi, alla figura mitologica greco-romana di Venere veniva affiancata un’autonoma Venere/Licasta di origini siciliane, che si sarebbe fusa con la prima nell’immaginario dei suoi devoti. Una simile bipartizione rispondeva perfettamente alle forti istanze campanilistiche della storiografia locale che tradizionalmente già collocavano l’origine di Demetra/Cerere direttamente in Sicilia. Per gli eruditi siciliani, dunque, non affermare le origini siciliane di Licasta avrebbe significato ammettere che il secondo più celebre culto pagano dell’isola era stato dedicato a una divinità venuta dall’esterno.
Ad ogni modo, che si accettasse o meno la storia di Licasta, la tendenza maggioritaria fu quella di esaltarne la sicilianità, anche se gli eruditi ericini non disdegnarono neppure di metterla in relazione con la venerabile sapienza egizia.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, i progressi compiuti dalla critica delle fonti condussero anche in Sicilia all’abbandono definitivo delle dottrine evemeristiche, secondo cui le divinità altro non sono che grandi personaggi umani del passato poi divinizzati.. Messa da parte la regina Licasta, gli inizi del culto ericino potevano essere considerati da un punto di vista completamente nuovo.
Nel frattempo, lo studio della Sicilia antica diventava cruciale per determinare il carattere più genuino ed autentico di una presunta «cultura siciliana» autonoma ed originale. Il più importante lavoro da fare, dunque, divenne quello di rintracciare i diversi influssi che erano entrati in azione al momento della sua formazione o, più precisamente, quelli che avevano finito per prevalere. La portata di questo problema, inoltre, si estese spesso anche al di là dei confini della Sicilia, assumendo risonanze più generali nel dibattito circa le radici della nazione italiana o addirittura della civiltà europea.
In questo quadro, la dea di Erice è rimasta al centro del dibattito storiografico fino a tempi piuttosto recenti.
Il culto della Venere Ericina assunse proporzioni sempre maggiori tanto che la fama del santuario divenne ben nota in tutto l’impero. Vi sono tracce della devozione alla dea in Sardegna, a Cartagine e nell’odierna El Kef, nell’attuale Tunisia, in cui esisteva un santuario gemellato con quello siciliano dove, in occasione dei festeggiamenti in onore della dea, le colombe bianche liberate dal tempio ericino sarebbero giunte, per poi dopo nove giorni ritornare indietro.
Il tempio, ancora fiorente nel 75 a.C., decadde subito dopo a causa della diminuzione del traffico marinaro e per l’involuzione economica dell’Isola. Non più centro militare, l’acropoli ericina, sede di una religione bandita dal Cristianesimo, decadde del tutto.
Tra i vari popoli saranno principalmente i romani ad omaggiare maggiormente il santuario e la dea, tanto che a Roma le furono eretti due templi, ma poiché erano dedicati ad una divinità straniera, vennero costruiti fuori del pomerio e delle mura urbane, uno sul Campidoglio e l’altro presso la Porta Collina. Per celebrare il gemellaggio sacro tra Erice e Roma, la statua colossale della dea venne portata in processione nel 211 a.C., fino alla capitale. Di essa oggi se ne conserva solo la testa, ribattezzata dagli archeologi con l’appellativo di Acrolito Ludovisi.
Tra i dati materiali che confermano l’importanza del culto romano nei confronti della Venere Ericina troviamo il rinvenimento di monete repubblicane risalenti al 57 a.C., nelle quali appaiono rappresentati il volto della dea nel diritto e il tempio siciliano nel rovescio. L’imperatore Tiberio, in quanto appartenente alla gens Iulia, dunque, secondo il mito, discendente proprio da Venere, volle omaggiare la propria progenitrice attraverso la realizzazione di un imponente progetto edilizio di restauro del tempio, anche se i lavori vennero ultimati successivamente dall’imperatore Claudio.
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